• Storia dell’atletica italiana, di Marco Martini, 1987
  • Storia dell’atletica moderna, di Roberto L. Quercetani, 1990
  • Maratona di Roma, cronaca di un secolo, di Carlo Santi, 1990
  • Giulio Gaudini, olimpionico, di Marco Impiglia, 2004
  • 30 anni di passione, da Amatrice a Configno, di Vanni Lòriga, 2007
  • Manuale delle Associazioni sportive, AA.VV., 2011
  • Storia dell’atletica siciliana, di Sergio Giuntini-Pino Clemente, 2012
  • Otto x 100, da Owens a Bolt, di Marco Franzelli, 2012
  • A History of Modern Track and Field Athletics, di Roberto L. Quercetani, 2014
  • Adolfo Consolini, a cura di Carlo Santi, 2017

 

Storia dell’atletica moderna, di Roberto L. Quercetani, 1990

Quella sera, in piazza Vittorio Emanuele, un quadro luminoso avvertiva Firenze e l’Italia della vittoria di Luigi Beccali nell’Olimpiade d’oltre Oceano. Era il 1932, Roberto Luigi Quercetani era là. Aveva dieci anni. Fu l’episodio che generò l’accostamento all’atletica, mai incrinato in seguito, del nostro amico. La costante consultazione di un testo, essenziale nella ricostruzione storica della disciplina, viene a ricordarci che sono ormai trascorsi ventisei anni da quando Quercetani scrisse la frase di chiusura della sua A World History of Track and Field Athletics 1864-1964, pubblicata in Inghilterra per la Oxford University Press. Tradotta in finlandese nel periodo intermedio, l’opera approdò successivamente in Italia alla vigilia dell’Olimpiade del Messico, editore Longanesi, stampata nel luglio 1968 nella cromotipia E. Sormani di Milano. Volume ora introvabile in qualsiasi fondo di magazzino, salvo che negli archivi dei cultori. Ancora stagioni prima, in quegli anni febbrili di ripresa da un conflitto sciagurato illuminati da due atti di coraggio, gli Europei di Oslo del 1946 e i Giochi di Londra del 1948, Quercetani aveva pubblicato, insieme con lo statunitense Don Potts, docente universitario di matematica catturato dalla esattezza razionale di date, tempi e misure, la prima ricostruzione delle migliori prestazioni mondiali di tutti i tempi.

Merita ricordare qualche altro particolare relativo alla evoluzione culturale del nostro autore, della cui opera storica l’unico termine di confronto possibile rimane il testo di Robert Parienté, La fabuleuse histoire de l’Athletisme. Il suo primo quaderno di ritagli e di appunti aprì le pagine all’atletica proprio in seguito all’episodio fiorentino nato in quella che è ora piazza della Repubblica. A sedici anni, mentre procedeva a ritmo serrato la crescita conoscitiva di lingue estere, Quercetani firmava l’abbonamento alla rivista specializzata tedesca Der Leichtathlet. Fu su quelle pagine che apparve nel 1939 l’avviso di Arnold Larsson, svedese appassionato di atletica che andava alla ricerca di uno statistico con cui entrare in corrispondenza. Volontario a fianco dei finlandesi nella difesa contro i sovietici e quasi sicuramente perito nei geli della guerra del nord, poco prima di indossare la divisa Larsson aveva inviato tre volumi densi di riferimenti statistici e di documentazioni all’indirizzo italiano. Furono questi alcuni dei momenti più significativi, per i tempi in cui si verificarono e per la singolarità della materia, che portarono Quercetani a costruirsi progressivamente una formidabile tela di rapporti e di corrispondenze internazionali, tali da produrre nel tempo un patrimonio storico di difficile imitazione.

Nell’analisi di quest’ultima fatica pubblicistica, quattro soprattutto, a mio avviso, sono gli elementi che assegnano all’opera una dilatazione d’interesse e di esito finale rispetto alla prima storia del 1964 o, se preferite, del 1968. Il primo, scontato, dell’aggiornamento. Il quale va oltre la semplice elencazione storico-statistica di uomini, organizzazioni, vicende e dell’evoluzione tecnica verificatasi nelle stagioni recenti in proporzioni vistosissime, ma segue le linee progressive di quella concezione nuova, complessa, che l’atletica ha registrato negli ultimi quattro o cinque lustri di vita. Il secondo elemento si riferisce all’inserimento, decisamente positivo, del settore femminile, realtà assente nel primo impegno editoriale. Troppo importante, tale realtà, per essere trascurata. Anche perché, se nell’ambito sportivo, considerato nella sua complessità e varietà di specializzazione e nelle profonde diversità esistenti tra una disciplina e l’altra, l’atletica era e rimane il testimone più affidabile per accompagnare l’evoluzione dell’uomo, il settore femminile non poteva rimanere assente da un documento che, mentre ne traccia con profondo rigore le pagine più irrequiete e vincenti, sottolinea per forza di cose con un semplice riferimento statistico il baratro non solo temporale esistente tra i due metri di Horine a Palo Alto, 1912, e quelli di Rosemarie Ackermann, Berlino, 1977. Sessantacinque anni dopo. Viene da pensare un attimo, quale termine di confronto, ai primati maschili di nuoto polverizzati dalle donne nel giro di poche stagioni. Il terzo elemento, a metà fra documentazione ed estetica, è costituito dall’abbondante repertorio fotografico, pienamente in linea con la vastità e la ricchezza dell’opera. Il quarto, infine, è rappresentato da note a margine che rendono particolarmente preziosa la pubblicazione permettendo sottolineature accattivanti su fatti e personaggi.

Atto umano perfetto come pochi, nulla o poco aperto alle insidie delle interpretazioni arbitrarie, l’atletica lega senza false retoriche questa sua realtà assoluta, attuale, ultramoderna, alle voci del passato, filtrate, secondo i casi, dalle presenze, dalle testimonianze, dalle suggestioni, dalle leggende. Che nasca dai severi costumi di Sparta, dalla classicità e dall’insuperabile etica nicomachea, dai misteri degli egizi e degli etruschi, dai ruvidi spiriti irlandesi o dalla realtà romana – troppo impegnata, l’ultima, a conquistare e a organizzare il mondo per concedere spazi rilevanti all’uomo-atleta – la nostra disciplina affida i suoi codici di lettura maggiormente visibili ad alcune delle opere di più alto intelletto che l’umanità antica ci abbia tramandato: <<Afferrò un disco, più grande e greve, non di poco, di quello lanciato dai Feaci, lo roteò e lo scagliò via dalla mano possente>>. Ecco l’Odissea, e prima ancora l’Iliade: <<S’alzò subito il rapido Aiace d’Oileo, e Odisseo accorto e poi il figlio di Nestore, Antiloco, che con i piedi batteva tutti i giovani. Stettero fermi in piedi. Achille segnò la meta. Passato il segno, la corsa divenne subito serrata>>. L’elenco è numeroso, e penso che chiunque s’accosti a questo sport, attore o testimone che esso sia, ed a qualunque livello, gamba patrizia o arto indigente, non possa restare indifferente al fatto che il gesto d’oggi sia sostanzialmente lo stesso che per una infinità di tempi ha accompagnato dall’inizio atti sconosciuti, pur tuttavia immaginabili, della storia dell’uomo, per poi trasferirsi in documenti grafici, plastici e letterari che al tempo d’oggi appaiono insuperati. Oppure, in termini rovesciati, brutali, quindi affatto diversi: <<Lo scadimento morale in cui vivono alcuni atleti fa nascere in loro cupidigie illecite… da questa corruzione non escludo gli istruttori… non sono che mercanti del valore atletico>>. Sembrerebbe cronaca dei nostri giorni, e non le considerazioni che un sofista ateniese veniva scrivendo nel terzo secolo dopo la nascita di Cristo. Che tale bruciante testimonianza sia molto meno nota ai più dei giochi in memoria di Patroclo o del lancio da primato d’un inossidabile Ulisse, rientra in uno di quelle riflessioni che Quercetani, non senza ironia, richiama nella sua storia: alle leggende si chiede di essere belle, piuttosto che vere! Anche da queste leggende, ma anche per un profondo convincimento culturale, la saggistica e la storia letteraria contemporanea, siano Joyce o Musil, De Montherlant o Giradoux, Primo Levi o Montale, esprimeranno testimonianze che da un lato ripropongono inalterato l’assunto più volte avanzato che l’atletica sia per cultura espressione d’aristocrazia, dall’altro rompono il fronte della solitudine insanabile, desolante, dell’ignoranza.

La forza dell’atletica, termine che vale in assoluto senza unirsi a quell’inattuale appendice di leggera che alle soglie degli anni Duemila qualcuno dovrà pur decidersi ad eliminare, è nel rispetto della tradizione, unico strumento idoneo ad offrire un giudizio equilibrato tra l’imperativo della sua onestà, della sua chiarezza, della bellezza del gesto, e la mutevolezza dei tempi e degli uomini. Quando parlo di radici e di tradizione, mi riferisco all’eccezionale patrimonio che l’evocazione dei miti e la migliore cultura espressa dall’atletica nei tanti decenni del ventesimo secolo ha trasmesso alle intelligenze, ed ai cuori, dei più. Per anni e anni questo sport ha seminato nel mondo conosciuto una quantità incommensurabile di valori etici prima ancora di vicende agonistiche, che in ogni caso, per la loro assolutezza, non temono paragoni. Questa somma di valori e l’impegno dei tanti hanno permesso il conseguimento di traguardi tecnici, organizzativi, spettacolari, di popolarità, in precedenza impensabili, apprezzati o invidiati, comunque. Nei criteri di assimilazione, la costruzione di una semplicissima pista in terra d’un campo scuola ai margini d’una savana africana vale paradossalmente quanto organizzare un campionato mondiale a Helsinki, a Roma o a Tokyo, o incidere sul marmo o pietra d’uno stadio i nomi di Owens, Clarke, Brumel, Blankers-Koen, Consolini, Berruti, Coe, Koch, Moses. Se tuttavia il conseguimento di alti risultati dovesse compromettere in maniera insanabile l’etica che è sempre stato filo conduttore di questa disciplina, e che può essere rappresentata dallo sconfitto che offre la mano al vincitore, dal dirigente d’una piccola associazione che dà il meglio di se per la crescita giusta d’un gruppo di giovani o, ancora, dalla attesa imparziale d’un pubblico dinanzi al primo posto d’un atleta d’identità straniera e dal desiderio inesausto d’indossare la maglia della nazionale, allora non esiste interpretazione che possa trasformare il negativo in positivo, il falso in vero.

Per esperienza, per fiducia, per ottimismo, ritengo determinante che ogni futuro debba essere interpretato a sostenere con forza questo grande serbatoio di valori che l’atletica è in uomini e realizzazioni. Non esiste probabilmente realtà umana che possa, attraverso una lettura trasparente, finissima, offrire solo il senso positivo di se stessa. Questa disciplina non sfugge alla regola. Tuttavia, non ha necessità di alimentare illusioni, poiché esse si volgono spesso alle utopie, e all’atletica non servono né le une né le altre. Se regina, secondo retorica, era, adesso è tempo che guardi alla propria verginità. Antica e mutevole, essa è eternamente giovane. Compete agli atleti, ai giudici, ai tecnici, agli osservatori, a chi ne scrive e ne parla, agli organismi nazionali e internazionali, tutelarla a questa soglia del Duemila che può essere ancora una soglia vincente, come tante altre che l’hanno preceduta. Purché, come scrive Quercetani, si tenga presente che il mantenimento dei valori etici resti quale infallibile imperativo. Questa è la regola per ogni consesso che si richiami, prima che al progresso, alla civiltà. 


A History of Modern Track and Field Athletics, di Roberto L. Quercetani, 2014

Ventisei agosto 1950, Bruxelles, rue de la Montagne, Café de la Madeleine: nasce The Association of Track and Field Statisticians. Ne sono protagonisti undici tra giornalisti e statistici, dieci europei e uno statunitense, Roberto Luigi Quercetani, Fulvio Regli, André Greuze, Don Potts, Erich Kamper, Norris Mc Wirther, André Senay, Bruno Bonomelli, Björn-Johan Weckman, Ekkehard Megede, Wolfgang Wünsche. Lugano, 1951, una copertina grigia sbiadita dal tempo e dall’uso, un piccolo volume, al tempo d’oggi autentica rarità, di centoventotto pagine, fotografie di Emil Zatopek, Gaston Reiff, Arthur Wint, Herbert McKinley, Arne Ahman, Ragnar Lundberg, James Fuchs, Adolfo Consolini, Ivan Gubijan, Robert Mathias: secondo battesimo, è “The 1951 A.T.F.S. International Athletic Annual”, pubblicato a nome dell’associazione degli statistici di atletica e firmato da Quercetani e Regli.  Quelle evocate costituiscono due tappe fondamentali nella vita professionale dell’autore di questo volume di aggiornamento di “A History of Modern Track and Field Athletics”, un interesse nato in un giorno del 1932 – dinanzi a un display collocato nella stazione di Firenze annunciante la vittoria di Luigi Beccali sui 1500 metri ai Giochi di Los Angeles – alimentato progressivamente con le consultazioni dell’italiana Gazzetta dello Sport, della francese L’Auto nel primo anno di direzione di Jacques Goddet, della tedesca Der Leichtathlet, con il primo articolo firmato nel 1943 sul giornale finlandese Suomen Urheilulehti, con i contatti con il mensile statunitense The Amateur Athlete e la conoscenza di Donald Potts, con cui Quercetani produsse nel 1947 la prima “All-Time World List”, e con l’inizio della collaborazione con Track & Field News (1948) e con Leichtathletik (1950). Da allora, per scrupolo di ricerca e accuratezza di documentazione, l’umanista Quercetani, l’uomo di Firenze, l’uomo che nella sua vita ha sempre avuto come riferimento il credo di Socrate – Hoc unum scio, me nihil scire – è stato ed è sistematicamente uno dei passaggi obbligati, una sorta di padre putativo o di fratello maggiore, per chiunque avesse o abbia interesse di accostarsi con attendibilità ai personaggi e alla storia dell’atletica mondiale, alla cui prima ricostruzione contribuì in misura rilevante nel 1964, pubblicando con la Oxford University Press, con prefazione di Harold Abrahams, “A World History of Track and Field Athletics 1864-1964”. Occorrerebbe molto spazio per elencare una lista esauriente delle pubblicazioni firmate dal poliglotta Roberto Quercetani nella sua generosa, appassionata carriera dedicata allo studio della nostra disciplina. Questa è l’ultima, in ordine di tempo. Sarà benvenuta, da parte di chiunque ami l’atletica e la consideri espressione vitale della umana cultura. Sport di frontiera, più di tutti.

Gennaio 2014   


Ottox100 di Marco Franzelli

L’evocazione del passato è spesso un rifugio dei sentimenti. Male che vada, un esercizio di memoria. Con lucidità, con prudenza, con eleganza, Marco Franzelli mette in fila una summa antologica della velocità. Una sfida metafisica, di pura astrazione, tra otto protagonisti nella storia olimpica dei 100 metri. Vale a dire quanto di più esclusivo esista tra le prove atletiche, la stessa che esteti del gesto umano non esitano a definire l’alfa della pratica agonistica.

Come tutte le classifiche affidate al giudizio personale, l’impresa era esposta al rischio. Poteva, ma non lo è stato. Ho consultato più volte elenchi e vicende umane dei vincitori olimpici, a partire da Thomas Burke, il bostoniano che il 10 aprile 1896, in 12 secondi netti, mise la firma sul traguardo ateniese del Panathinaikon, tre giorni dopo l’affermazione, unica nella storia olimpica, sui 400 metri, e un anno avanti che inventasse e corresse sulle strade di casa la più antica delle moderne maratone.

Per obiettività di ricerca, per importanza dei personaggi identificati, per datazione storica, per conservazione evocativa, l’elenco è questo: Abrahams, Owens, Hary, Hayes, Hines, Borzov, Lewis, Bolt. Facile obiettare: perché non Charles Paddock, vincitore nel 1920 ad Anversa e sottoscrittore di una infinità di primati negli anni successivi, ma suo malgrado confinato al quinto posto proprio nella finale che nel 1924 vide vincitore Abrahams. Perché non Bob Morrow, il bianco di Harlingen che a Melbourne, nel 1956, primo atleta dopo Jesse Owens, vinse 100, 200 e 4×100. Ancora, considerata la sorprendente eccezionalità dell’episodio, perché non Harrison Dillard, ostacolista, eliminato nella specialità preferita nelle selezioni per l’Olimpiade del 1948, qualificato come terzo atleta statunitense nei 100 e vincitore a sorpresa sulla pista di Wembley, rinviando poi l’appuntamento vincente sui 110, quattro anni dopo, ad Helsinki. E infine, perché non Maurice Greene, l’uomo del Kansas primo a Sydney, ineguagliato numero uno tra il 1997 e il 2001 con un bagaglio di titoli e di primati mondiali da mettere in crisi un contabile bancario. Opinioni, come tante, che non alterano di una virgola l’attendibilità delle otto citazioni. Tutto il resto va rinviato alla lettura del libro, alla fedeltà della documentazione, alla descrizione di personaggi che, uno sull’altro, hanno scritto pagine di sport che, sottratte alla labilità delle mode, sono affidate all’eternità dei tempi.

La lontananza delle epoche e l’insondabile inclinazione romantica di chi scrive queste brevi note lasciano preferire, rispetto ai campioni più recenti, l’arcaicità dei grandi del passato più lontano. Vale per l’orgoglioso riscatto dell’ebreo di origini lituane Harold Maurice Abrahams, vale per l’immenso Jesse Owens, da assegnare al novero, tecnico ed estetico, dell’assolutezza agonistica, vale per Armin Hary, vale per Jim Hines, vale per Bob Hayes, tutti esponenti di una atletica felix ancora lontana dalle livide consuetudini che avrebbero in seguito insozzato corpi e anime. Ma vale, risultati alla mano, per il gelido perfezionista Valery Borzov, per l’esuberante Carl Lewis e per il fenomeno degli anni Duemila Usain Bolt.

Marco Franzelli è da metà degli anni Settanta, in senso culturale, assiduo osservatore di atletica. Dopo i Giochi di Seul del 1988 raccolse l’eredità di Paolo Rosi al microfono televisivo. Eventi professionali e dinamiche aziendali ne modificarono successivamente i ruoli, portandolo all’assunzione di incarichi di responsabilità nel primo telegiornale dell’Azienda di Stato. Sfidando la riservatezza, e abusando della sua confidenza, non escludo che, se potesse, malgrado l’autorevolezza della sua attuale collocazione professionale, Marco Franzelli tornerebbe dinanzi a quel microfono. Perché l’atletica sa essere tentacolare come la più sfuggente delle amanti. E questo libro, dopo quello su Zatopek del 2011, ne è reiterata testimonianza.

Aprile 2012


Maratona di Roma, cronaca di un secolo

Non ricordo dove, se non forse in una delle chilometriche ricostruzioni della specialità prodotte da Ottavio Castellini,. Parola più, parola meno, la citazione riferiva tuttavia di Ana Estela Minhoto, 11 anni, da Nazaré: la corsa è un pezzo di vita che ogni corsa porta dentro di sé. Viene da chiedersi, senza scomodare secondo fatalità Filippide o Fidippide, Tersippo o Eucle, veri o falsi che essi siano, ateniesi e persiani, Erodoto, Plutarco e Luciano di Samosata, quanti siano i pezzi di vita disseminati attraverso i secoli da una umanità applicata alla corsa per libera scelta o per necessità, innocente o reproba, cacciatrice o preda involontaria. Di questa umanità trasferita allo sport, la corsa dei quarantadue chilometri rappresenta l’alfa e l’omega, l’esaltazione o l’abisso, l’affermazione di una dignità vincente, quale sia il cronometro o il piazzamento, o lo specchio d’una indigeribile sofferenza, quando tutti, l’olimpionico o il corridore della domenica, il prete o il magistrato, l’operaio d’officina o il giornalista, il libero pensatore o il cantante celebre, storditi e senza fiato tornano inesorabilmente bambini con la voglia di piangere.

Poca la differenza tra Giovenale e Voltaire, quando giungono a compimento di un problematico tragitto filosofico dove saggezza d’animo e qualità atletica diventano espressione di benessere e di felicità. Agli inizi del ventesimo secolo – qualche decennio dopo quel periodo di cui s’ebbe a scrivere con sintesi di rara efficacia come l’atletica e la corsa si fossero un giorno mosse dai porti del Regno Unito insieme con i battelli, gli affaristi, i tecnici e gli operai della regina Vittoria – quel benessere era consentito solo alle classi che moralismo, ipocrisia e cultura bigotta definivano elevate. Chi lavorava ne era escluso. Accadeva che un nobile facesse scherma o equitazione, cogliesse le prime febbri dei motori, applicasse attorno alle dita bende da pugilato. Mai però che corresse, mai che la fatica della strada s’aprisse dinanzi ai suoi piedi. Quell’ipocrisia non regge ormai da tempo, anche se l’approccio formale della Federazione internazionale di atletica – che più di tutte subì negli anni l’ambiguità delle distinzioni – continua a perpetuare, per distrazione, o forse per ignavia, la patetica dizione dilettantistica, maturando così un debito all’intelligenza prima ancora che alla semantica.

Secolo dello sport, il ventesimo, nel bene e nel male, oggi preda, e protagonista, atleti, dirigenti ed informatori, di un sistema arbitrario di cui sarebbe salutare disfarsi, ripartendo da zero, perché le deformazioni ne segnano la strada ed una volgare patologia sembra legittimarne rischi e cadute. S’aprì, il secolo, con il ricordo dell’avventura temeraria e poetica di Carlo Airoldi, del trionfo ellenico del pastore di Amaroussion, e con il dramma del piccolo uomo di Mandrio che commosse una regina aprendo uno sconfinato capitolo di rievocazioni. Ne vissero gli uomini dell’epoca. Continuiamo a viverne, oggi, sicuramente con minore innocenza.

Nella storia della maratona, comunque della corsa su strada, orfani della tradizione anglosassone, Roma ha tuttavia un suo ruolo, creando un percorso dove propositi e iniziative individuali hanno messo assieme un ordito, dichiaratamente popolare, alternato ad eventi proposti dagli organismi ufficiali. È sorprendente notare come ogni epoca presenti inalterate le sue sacche nostalgiche ed i rimpianti per tempi migliori. Tempo della prima guerra mondiale, ed un commentatore dell’epoca già sottolineava l’ignoranza dei suoi anni comparandola alla febbrile attività d’inizio secolo, quando il libro sacro delle società sportive si apriva ai paradigmi della forza, del coraggio, dell’audacia, della Patria, e dunque i nomi non potevano che essere quelli di Forza e Coraggio, Audace, Fortitudo, Pro Patria. L’atletica era ancora un mondo strano. Avrebbe dovuto attendere Ugo Frigerio per la prima medaglia d’oro olimpica. Era Anversa 1920, l’Italia s’era affidata alle cure empiriche di Platt Adams, che otto anni prima aveva inchiodato sulla parete del New York Athletic Club la medaglia d’oro vinta a Stoccolma saltando 1.62 da fermo. Breve fu la permanenza di Adams al vertice tecnico. Per Parigi ’24 sarebbe stato il turno di quel fenomeno atletico che fu Emilio Lunghi. E, ancora quattro anni dopo, di Jano Gaspar, ungherese.

Delle abitudini capitoline offre testimonianza questa cronaca di un secolo. Come tutte le testimonianze oneste, essa ha la presunzione d’un traguardo raggiunto e, insieme, l’umiltà di riconoscere, di quel traguardo, i limiti. Per lungo tempo, attorno al termine maratona confluì genericamente un’attività di strada in cui veniva fatta poca distinzione fra marcia e corsa. Gli stessi promotori delle prove su strada spesso alternavano l’attività organizzativa su questo doppio binario: unica la passione, identica la popolarità, immutabile, talora inevitabile per carenza d’impianti, la scelta dei territori e delle strade cittadine. Potendo, dovendo fare un nome tra l’infinita schiera di costruttori di sport a Roma, un nome valga per tutti, quello di Ercole Tudoni, prima partecipante agonistico, poi organizzatore di marcia e di corsa. A distanza d’anni dalla sua scomparsa, il suo ricordo apre ancora alla commozione il cuore anziano di Giannino Gevvi, antico sodale che al civico numero 2 di via Romolo Gessi a Testaccio custodisce, con l’incorrotta gelosia dei credenti, una documentazione aperta da una data, 2 ottobre 1949, primo Gran Premio Enrico Giammei, partenza da piazza San Pietro, buono del valore di lire sedicimila al vincitore.

Opera della tenace ricostruzione di Carlo Santi, corredata della testimonianza di Franco Fava su Oscar Barletta, uno dei padri storici della maratona, resa possibile dell’apertura culturale dell’Italia Marathon Club, questa pubblicazione prende vita alla vigilia della Maratona del Giubileo. Piazza San Pietro è luogo doppiamente canonico ed affatto rituale. Lo stesso coinvolgimento della Santa Sede non è originalità assoluta. Esistono almeno due precedenti, tratti dalla magnifica storia dell’atletica italiana messa su carta da Marco Martini. Poi X, che aveva praticato marcia in gioventù nella sua Riese, aprì le porte del Vaticano in due occasioni, nel 1905, cortile del Belvedere e cortile di San Damaso, e nel 1908, cortile del Belvedere, pista di circa 400 metri, rettilineo di 110, atleti d’Italia, Belgio, Irlanda, Francia e Canada. La citazione di Martini offre lo spunto per ricordare al volo come nel recente passato la pubblicistica sull’atletica abbia avuto un ruolo decisivo per una dignitosa ricostruzione culturale dello sport italiano. Sono di non facile reperibilità i testi variamente articolati di Gianni Brera, Roberto Quercetani, Bruno Bonomelli, Salvatore Massara, Luciano Serra, Stefano Iacomuzzi. Ma chi fosse dotato di curiosità e di fantasia non dovrebbe mancare di rispolverare le raccolte da emeroteca con le cronache dell’epoca, pubblicazioni come Atletica e Atletica Leggera, le opinioni, e perché no, gli insegnamenti di gente come Arturo Balestrieri, Luigi Ferrario, Bruno Zauli e, ancora anni dopo, di Alfredo Berra, Vanni Lòriga, Renato Morino, Giulio Signori. Ricostruire la maratona a Roma significa dunque fornire un piccolo contributo al recupero della memoria, da Umberto Blasi a Pericle Pagliani, Dorando Pietri ed Ettore Blasi, Stefano Natale e Aurelio Genghini, Giacomo Peppicelli e Abebe Bikila, Umberto Risi, Rosa Mota e Wakiihuri, fino a Baldini e Fiacconi. Trarre solo il meglio da essi può essere esercizio utile. Non sempre lo sport è frutto di intelligenza e di purezza. Grandezza agonistica e grandezza d’animo sono i termini di una equazione  che talvolta suscita imbarazzo. Ma ciascuno, ai vari livelli, anche quelli destinati al più scoraggiante degli anonimati, può essere campione di se stesso.

Agosto 1999


Storia dell’Atletica siciliana

Brevi righe, in un’attualità ubriaca di presente, per introdurre un lavoro che con la firma di due studiosi che fanno onore allo sport e alla cultura del nostro Paese trae dal passato la lucidità per aprirsi al futuro. Il primo è milanese, di consistenza  e specificità pubblicistica tali da rendermelo compagno, e dei più affidabili. Mezzofondista da giovane, anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, poco sotto i due minuti sugli ottocento, poco sopra i quattro nei millecinque, Sergio Giuntini ha maturato, immediatamente dopo, un lungo impegno tra le file dell’Unione italiana sport per tutti, sia nel direttivo della Lega di atletica sia nel Comitato scientifico, in contemporanea con un’assiduità di studio della storia dello sport approdata alla docenza negli Atenei milanesi della Statale e della Cattolica. Suggeritore di talenti, Gaetano Erba su tutti, salito nel ’79 al vertice continentale delle siepi, dal suo impegno di ricerca Giuntini ha  estratto una feconda, invidiabile produzione editoriale di cui, mentre lo spazio impedisce riferire il totale, correttezza impone tuttavia segnalare, a memoria, almeno alcuni punti fermi, primi d’essi, cronologicamente conosciuti, il saggio sull’Arena napoleonica e la ricostruzione della Storia di Dorando Pietri dalla via Emilia al West. E ancora, La storia dello sport a Milano, L’olimpiade dimezzata, Storia e politica del boicottaggio nello sport, Pugni chiusi e cerchi olimpici.

La congiunzione, matrice comune e complice Peppino Giunta, nella curiosità lessicale – L’Atletica è leggera, secondo suggerimento di Gianmario Missaglia, all’epoca presidente dell’ente di promozione – inconsapevolmente identica al prodotto editoriale concepito anni prima da Pino Clemente, il segno premonitore dell’incontro con l’uomo di Sicilia che mi è fratello e che lasciò il calcio, una laurea in farmacia e una garantita costruzione professionale, figlio unico di padre e madre titolari di una storica farmacia palermitana, per l’atletica. Il calcio giovanile di Pino nei campi polverosi della periferia s’incrociò con quello aquilano di Antonio Di Zitti, poi colonna del rugby, secondo identità d’appartenenza ai collegi Gonzaga. La corsa, 22.6 sui 200 e 50.6 sui 400, ebbe come ispiratori Bruno Testa zaratino, Filippo Carmeni professore imerese, e Franco Bettella da Padova, stature, nature, diversità antropologiche accomunate da identico spirito di bandiera sportiva. Un padre perduto troppo presto. La prima laurea nel ’62. Il concorso vinto per la titolarità di una farmacia a Barcis nel Friuli. La rinuncia. L’Isef, subito dopo. Gli incarichi universitari indivisibili dalle sedute sul campo. La profondità delle teorie sublimata dalla fisicità della pista rossa. La perla dei tre volumi Le scarpette chiodate, una titolazione di per sé manifesto. La scienza e l’arte dell’allenamento e saggi di epistemologia. Ancora prima, la fuga di Pino con Rita Lombardo, figlia di un maresciallo dell’Arma sfuggito nella difesa della legalità ad agguati rossi nella Toscana e nell’Emilia dell’immediato dopoguerra. Un’unione la loro alimentata stupendamente dalla compagna, anche durante le lunghe stagioni contaminate dalla crudeltà degli eventi, rese fragili nel 1995 da un corpo vittima della strada ma non certo dalla mancanza di lucidità.

Dunque, dall’unione, o dall’urto di orizzonti solo apparentemente lontani, la conoscenza e l’impegno a quattro mani nelle lunghe pagine che seguono: epifania di una regione che traduce in atletica i geni ricevuti da impasti greci e fenici, arabi e saraceni, normanni e aragonesi e svevi, sulle tracce di quello Stupor Mundi che fu Federico II e che nella Costituzione di Melfi volle, ed era il 1231, gli uomini tutti uguali, e tutti uguali dinanzi alla legge. Linguaggio dotto, quello usato da Clemente e Giuntini, com’è giusto che sia, perché dotta è la materia di studio, sottratta all’aridità delle cifre ed elevata ad esercizio culturale di potente leggibilità, come l’imbattersi nell’Aggredior arduam Physiologiam de motibus Animalium, il primo trattato di meccanica articolare concepito a metà Seicento dall’acume leonardesco di Ioannis Alphonsi Borelli. Oppure recuperando, in un passo, i riferimenti ad Enea Silvio Piccolomini, il Pio II che affidò al disegno di Bernardo Rossellino la miracolosa sapienza prospettica e urbanistica di Pienza e che nei suoi Commentarii descriveva una corsa di ragazzi impegnati nel Palio scrivendo <<… e a un segnale balzarono d’impeto… ora affondavano nella mota densa… ora cadevano mancando loro la lena… ora ripreso fiato si rialzavano>>. Oppure, ancora, la citazione dei Ludi di Pizzolungo, organizzati da Enea nell’anniversario della morte del padre Anchise <<… eran presso alla meta ed eran lassi / quando Niso sdrucciola ne l’erba pria di sangue intrisa…>>. Esempi, fra i tanti, di come in dodici capitoli venga affrontata l’analisi di una regione che è un immenso polmone umanistico e che dello sport e dell’atletica è stata, a partire da fine Ottocento, uno dei crocevia dell’attività nazionale, rimanendo spesso ai vertici tra le gerarchie di un territorio che pure ebbe nel Nord d’Italia, dalla prima compagine associativa registrata nella Torino del 1944, il punto fermo.

Dodici capitoli, mattone su mattone, dall’atletica dell’Ottocento al primo Novecento, ai miti e alle proto-origini dell’atletica regionale. In successione, gli anni tra le due guerre e la ripresa. I Giochi olimpici di Roma. Le stagioni ’60 e ’70. Sicilia e corsa campestre. Sicilia e marcia. Sicilia e velocità, concorsi e mezzofondo all’ombra di Madonie, Nebrodi, Peloritani e del più alto vulcano d’Europa, alle pianure verdeggianti, dalla Siracusa folgorata dall’illuminismo di Alberto Madella e dalla Cittadella dello sport di Concetto Lo Bello all’Altofonte della corsa eroica di Salvatore Antibo. Atleti isolani in nazionale. Grandi eventi organizzati in regione. Grandi interpreti, in agonismo, in tecnica e in passioni. Fino alle ultime stagioni. Fino al sofferto richiamo ad una disciplina che è, e deve essere, impegno civile.

Giugno 2010 


Giulio Gaudini Olimpionico

È di duecento metri esatti, il tratto di strada situato tra via Pierre de Coubertin, padre nobile e restauratore dell’olimpismo moderno, i funghi ingombranti del Parco della Musica, le residue pendici di Villa Glori e viale Jozef Pilsudski, militare e politico polacco che tra le due guerre mondiali impose un regime posto a metà via tra l’anticomunismo staliniano e l’intolleranza antitedesca.

Duecento metri aperti dalla targa stradale in marmo che reca inciso: Giulio Gaudini, Olimpionico, 1904-1948. Questo testamento offerto al personaggio Gaudini è il primo tributo storicamente accertato che la Capitale abbia offerto ad un suo figlio di sport, diversa essendo la motivazione toponomastica conferita a figure certamente vissute nella pratica agonistica, come Enrico Toti e Manlio Gelsomini, assegnatari di tale consacrazione per vicende belliche che li videro contemporaneamente eroi e vittime, nella prima guerra mondiale Toti, nella seconda Gelsomini. A qualche chilometro dalla via, nel cimitero del Verano, una statua di marmo ad altezza naturale  offre all’osservatore l’immagine imponente di un atleta che negli anni Trenta divise con Primo Carnera, con due metri e oltre, la formidabile capacità di toccare il cielo prima del resto del prossimo: anima lunga, quale lo descrisse un esegeta instancabile come Adolfo Cotronei, ma “lunga come la Grazia di Dio”.

Oltre il luogo di nascita collocato al centro di Villa Borghese, del cui parco agli inizi del secolo il padre era vice direttore, c’è un’altra località cittadina che tocca l’intimità umana di una delle figure più limpide dello sport nazionale del ventesimo secolo, ed è via Frangipane, a due passi dal Colosseo, dove risiede l’intramontabile fucina d’arte polisportiva rappresentata dall’Audace, e dove Salvatore Angelillo costruì, con l’affetto di un secondo padre e con infallibile pedagogia, in una sala d’armi concepita come un cenacolo, il futuro di un atleta che sbalordì il mondo schermistico internazionale in venti anni d’attività agonistica. Tempi di crescita, per lo sport romano, non solo nella scherma, ma attivo nel pugilato come nell’atletica, nel ciclismo come nella ginnastica e nel calcio, dove s’affermava la stella, solitaria nella sua perfezione tecnica, di Fulvio Bernardini, così come Vittorio Tamagnini aveva fatto brillare una stella luminosa sul ring di Amsterdam. Tempi di crescita, inseriti in una rete di costruzione sociale che vedeva nell’educazione sportiva e nel sostegno dei suoi vertici agonistici uno strumento, un soggetto non collaterale della crescita generale della Nazione.

Di Giulio Gaudini l’anagrafe fissa al 2004 la scadenza del centenario dalla nascita. La ricorrenza offre sicuramente l’opportunità per togliere una parte della polvere depositata dal tempo sul personaggio. Ma non è per nulla consolante che tale centenario venga celebrato quasi esclusivamente per l’impegno di un figlio, Mario, nella indolente pigrizia paraministeriale e nella supplenza di buona parte delle istituzioni sportive e territoriali nonché degli organi di informazione, secondo un registro antropologico in cui la cultura della conoscenza appare fatalmente destinata a soccombere dinanzi alla carestia d’etica e alla cultura dell’ignoranza, e anche alla più banale, la più stolida, la più sfacciata delle contemporaneità. Le pagine che seguono – scritte con la cadenza di un racconto e gestite con inflessibile rigore storico da Marco Impiglia, da anni, pur giovane, applicato a recuperare capillarmente le tessere musive dello sport romano – unite alla ricchissima ricostruzione iconografica, possono fornire un senso compiuto di cosa Gaudini abbia rappresentato per la scherma e per lo sport, sulla linea fedele della meravigliosa tradizione italiana disegnata tra i due secoli da Agesilao Greco, da Eugenio Pini, da Giuseppe Galante, resa successivamente sublime da Nedo Nadi, confermata poi da Saverio Ragno, da Gustavo Marzi, Oreste Puliti, Gioacchino Guaragna, Giorgio Bocchino, Aldo Montano, Giorgio Pessina, e poi ancora da Edooardo Mangiarotti e Renzo Nostini, fino agli epigoni moderni che hanno avuto nell’ultima sessione olimpica di Atene l’ennesima occasione per mostrare di quale metallo siano fatte le lame italiane.

Non è certamente questa la sede per affrontare dettagli tecnici che avrebbero come unico esito quello di rivelare lo scadente empirismo e l’approssimativa cultura specifica di chi scrive queste righe. Su tale versante fanno testo – insieme con le testimonianze degli addetti ai lavori, e con l’abbattimento della grossolanità del giudizio sulla presunta e tecnicamente inaccettabile “superiorità” della sua altezza – i risultati, a partire dall’esordio olimpico del 1924, passando quattro anni dopo attraverso le prime medaglie olimpiche di Amsterdam, attraverso gli Europei di Liegi e di Vienna, i Giochi dell’Atlantico del 1932, ancora i campionati continentali di Budapest, Losanna, trovando superba consacrazione nell’Olimpiade del 1936 e nei campionati mondiali disputati a ridosso del tragico mattatoio della guerra.

Come ebbe a giudicarlo Nedo Nadi, coraggioso ma non temerario, audace ma non spavaldo, Gaudini fu per gli avversari, francesi e ungheresi che fossero, spesso, molto spesso, un castigo di Dio, certificando con il suo comportamento in pedana quanto affermato da Angelo Mosso, torinese, medico, promotore dell’introduzione dell’educazione fisica nelle scuole medie superiori, massimo fisiologo in fine del diciannovesimo secolo, essere la scherma, il fioretto più della spada, la spada più della sciabola, il più difficile degli esercizi dello sport, richiedendo la maggior somma di sforzi del cervello, il massimo allenamento dei centri nervosi, vera, autentica operazione intellettuale. A tali caratteristiche, Giulio Gaudini aggiunse l’applicazione costante della “virtus” virgiliana, la stessa che gli consentiva talvolta di sottrarsi al veleno delle inquietudini più insidiose, mantenendo dunque inalterati dignità, rispetto per il valore degli avversari, lealtà, salvo dare sfogo in qualche caso alla sottile irruenza della sua romanità, condotta all’esternazione estrema.

Quando nel giorni di gennaio del 1948 la chiesa di via Guido Reni ebbe ad accoglierne il corpo, Gustavo Marzi, compagno d’armi ed amico, dettò con quattro parole ai presenti e agli assenti l’epicedio più commovente: <<Siate orgogliosi del suo ricordo>>. E oggi, anno 2004 del suo centenario, è toccato a Umberto Silvestri, giunto alla soglia dei novanta anni dopo aver massacrato ossa e muscoli per infinite stagioni agonistiche sui tappeti della lotta e nei pantani del rugby, evocare la memoria di Giulio Gaudini con la straordinaria schiettezza che contraddistingue questo altro colosso dello sport capitolino: <<Eravamo tutti dietro lui, lui nostro portabandiera, tutti, Vittorio Pozzo e i calciatori, Ondina Valla, Claudia Testoni, Luigi Beccali, Mario Lanzi, Arturo Maffei, Giorgio Oberweger, Gustavo Marzi, Ragno, Montano, Guaragna, nell’indimenticabile Olimpiade di Berlino, tutti orgogliosi di rappresentare l’Italia e della figura aristocratica di Gaudini che era, più di tutti, la nostra bandiera, una calamita per le centomila paia d’occhi disseminati nello stadio. Lo ricordo vicino a quell’altra fulgida figura d’uomo, di soldato, di sportivo che era e rimane Silvano Abba, istriano di Rovigno, medaglia nel pentathlon, caduto da eroe sul fronte russo, ad Isbuscenskij, alla testa della sua compagnia del Savoia cavalleria. Che Iddio li protegga, dovunque essi siano, e con essi la loro memoria>>.

Novembre 2004